Dalla scomparsa di Emanuela Orlandi sono passati più di 40 anni e finalmente il Vaticano ha aperto un’indagine
Il 14 gennaio Emanuela Orlandi avrebbe compiuto 56 anni. Su iniziativa del fratello Pietro, come sempre in occasione del compleanno, il giorno precedente si è tenuta una grande manifestazione a Roma, in piazza Cavour, un luogo simbolico. Lì c’è quello che i romani chiamano “il palazzaccio”, ossia l’imponente sede della Cassazione, più o meno a metà strada tra il il potere legislativo italiano, il Parlamento, e quello sconfinato del Vaticano con la Cupola di San Pietro.
Da tutta Italia sono accorse le persone che chiedono la verità sulla scomparsa (sul rapimento?) di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno 1983. La foto della “ragazza con la fascetta”, scattata poco prima nel corso dei festeggiamenti per lo scudetto della Roma, la conosciamo tutti. All’epoca aveva 15 anni e una grande passione per la musica. Quel pomeriggio usciva proprio dalla scuola di canto, nei pressi della Basilica di Sant’Apollinare, per incontrare la sorella Cristina, per poi andare a cena con tutta la famiglia. Gli Orlandi sono cittadini di Città del Vaticano, visto che il padre Ercole all’epoca era messo vaticano.
A FqMagazine Pietro Orlandi ha spiegato perché la manifestazione si è tenuta fuori la sede della Cassazione: “È simbolica dal momento che la giustizia è mancata per più di 40 anni. Fa anche parte di quelle strade frequentate da Emanuela, al di là del fiume c’è la sua scuola di musica, di fianco c’è Castel Sant’Angelo, si avvicina insomma a questa vicenda”.
Tante le piste investigative e giornalistiche che in questi anni non hanno portato a nulla. Per molto tempo si è detto che Enrico De Pedis detto Renatino, uno dei capi della banda della Magliana, sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare, cioè in territorio Vaticano, fosse responsabile del rapimento, e che anche lì bisognava anche cercare Emanuela. Nel 2012 è arrivata la conferma grazie alle indagini della scientifica: è di De Pedis la bara tumulata in quelle sacre mura e della giovane nessuna traccia.
Ad oggi ci sono due inchieste archiviate e l’anno scorso, poche ore dopo la morte di Papa Benedetto VI, la Città del Vaticano ha aperto la prima inchiesta. Sì, la prima, quarant’anni dopo i fatti. Il promotore di giustizia del Vaticano, l’omologo del Pm in Italia, Alessandro Diddi, ha dichiarato all’Ansa: “Continueremo a lavorare e a differenza dell’Italia noi non abbiamo limiti di tempo, il sistema è più garantista per la persona offesa, finché il caso non è chiuso continueremo a lavorarci”. Nelle indagini c’è anche la collaborazione della Procura di Roma.
Ma Pietro Orlandi non è soddisfatto del garantismo e si sofferma sulle altre parole, “non abbiamo limiti di tempo”. “Diddi è un uomo molto scaltro – ha detto – perché il sistema giudiziario vaticano è quello che c’era in Italia prima del 1929, non c’è termine per concludere le indagini preliminari per cui una persona può restare indagata per anni”. Il tempo che al contrario, non agevola la parte offesa “visto che hanno aperto un’indagine con 40 anni di ritardo (…) così potrebbe far durare le indagini all’infinito”. Indagini partite tardi e che non hanno un termine ultimo: “Il tempo è nemico della verità“.
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